giovedì 24 dicembre 2009

piccolo regalo per noi tutte: "la doppia immagine" di anne sexton

La Doppia Immagine

A novembre compio trent’anni.
Sei ancora piccola, hai solo tre anni.
Guardiamo le foglie gialle, sono stremate,
turbinano nella pioggia d’inverno,
cadono e s’acquattano. Ed io ricordo
i tre autunni che non hai passato qui.
Hanno detto che mai ti avrei riavuto.
Ti dico quel che mai saprai davvero:
le congetture mediche
che spiegano il cervello non saranno mai reali
quanto queste foglie abbattute.
Io, che ho tentato due volte d’ammazzarmi,
ti avevo dato un nomignolo
appena arrivata, nei mesi del piagnucolare;
poi una febbre t’è rantolata in gola
ed io mi muovevo come una pantomima
attorno al tuo capino.
Angeli brutti mi hanno parlato. La colpa,
dicevano, era mia. Facevano gli spioni
come streghe verdi versando nella testa la rovina
come un rubinetto rotto;
come se la rovina avesse allagato la pancia e sommerso la culla,
un vecchio debito che dovevo accollarmi.
La morte era più semplice di quanto credessi.
Il giorno che la vita t’ha restituito sana e salva
Ho lasciato le streghe rapire la mia anima in colpa.
Ho finto d’esser morta
finché uomini bianchi m’hanno spompato il veleno,
m’hanno messo senza braccia e slavata
nella manfrina di scatole parlanti e letti elettrici.
Ridevo a vedermi messa ai ferri in quell’hotel.
Oggi le foglie gialle
sono stremate. Mi chiedi dove vanno.
Ti dico che l’oggi ha creduto in se stesso, altrimenti cedeva.
Oggi, piccina mia, Gioia,
ama il tuo essere dove adesso vive.
Non esiste un Dio speciale cui rivolgersi; o se c’è,
allora perché t’ho fatto crescere altrove.
Tu non riconoscevi la mia voce
quando tornavo a casa a trovarti.
Tutti i superlativi
di alberi di Natale e vischi del futuro
non ti aiuteranno a sapere le feste che hai perduto.
Nel tempo che non amai me stessa
venni in visita a te su marciapiedi spalati,
mi tenevi per un guanto.
Dopo questo fu di nuovo neve.

2.
Mi hanno spedito lettere con tue notizie
e io cucivo mocassini che non avrei mai usato.
Quando cominciai a sopportarmi
andai a stare con la mamma. Troppo tardi,
troppo tardi, dissero le streghe, per stare con la mamma.
Non me ne sono andata.
Ma un ritratto mi son fatto.
Dal manicomio nel parziale ritorno
venni alla casa di mia madre a Gloucester.
Ed ecco come venni ad abbrancarla,
ed ecco come venni a perderla.
Mia madre disse, per il suicidio io non posso dar perdono.
Non l’hai mai potuto.
Ma un ritratto lei m’ha fatto.
Ho vissuto da ospite rabbioso,
parzialmente rammendata, bimba esorbitante.
Ricordo che mia madre faceva del suo meglio.
Mi portò a Boston per farmi cambiare il taglio.
Sorridi come tua madre, disse il capocciante.
Non mi pareva interessante.
Ma un ritratto mi son fatto.
C’era una chiesa là dove sono cresciuta,
là in bianchi armadi fummo inchiavati
come coro di marinai, o puritani, irreggimentati.
Mio padre passava col piattino per la questua.
Dissero le streghe, troppo tardi per esser perdonata.
E non fui propriamente perdonata.
Ma un ritratto m’hanno fatto.

3.
Quell’estate gettiti irrigui s’inarcavano
a pioggia sull’erba rivierasca.
Parlavamo di siccità
mentre il prato corroso dal salmastro
nuovamente raddolciva.
Per passare il tempo falciavo l’erba
e la mattina mi facevo fare il ritratto,
fissando il sorriso nella formalità.
Ti ho spedito il disegnino di un coniglio,
e una cartolina col Motif number one
come se fosse normale
essere madre ed essersene andata.
Hanno appeso il ritratto nella fredda luce
del lato nord, che bene mi si addice,
per farmi stare bene.
Soltanto mia madre s’ammalò.
Mi volse le spalle, come se la morte contagiasse,
come se la morte si riflettesse,
come se il mio morire l’avesse corrosa.
Ad agosto avevi due anni, ma era dubbio il calcolo dei giorni.
Il primo settembre mi guardò in faccia
e mi disse che le avevo attaccato il cancro.
Le mozzarono le colline dolci
e ancora non avevo la risposta.

4.
Quell’inverno lei tornò
parziale ritorno
alla sterile suite
di medici, nauseante
crociera di raggi X,
l’aritmetica delle cellule impazzita.
Parziale intervento,
braccio grasso, prognosi infausta,
li ho sentiti dire.
Durante le burrasche marine
lei si fece fare il ritratto.
Caverna di uno specchio,
appeso al lato sud;
una coppia di sorrisi, una copia di lineamenti.
E tu mi assomigliavi sconosciuto
viso mio, tu lo indossavi.
Dopotutto eri mia.
Ho svernato a Boston,
sposa senza figli,
niente di dolce da spartire,
con le streghe a fianco.
Ho perduto la tua infanzia,
tentato un altro suicidio,
subito il secondo hotel dei sigilli.
M’hai fatto un Pesce d’Aprile.
Abbiamo riso insieme, fu cosa buona.

5.
Per l’ultima volta m’hanno dimesso
il primo maggio;
laureata in casi mentali,
con l’assenso dell’analista,
un libro finito di versi,
la macchina da scrivere e le borse.
Quell’estate imparai a rimettere vita
nelle mie sette stanze,
andavo su barchette a cigno, al mercato,
rispondevo al telefono,
da brava moglie offrivo da bere,
facevo l’amore fra crinoline e abbronzature d’agosto.
E tu venivi ogni weekend. No, mento.
Venivi di rado. Fingevo che c’eri
bimba farfalla, porcellina
guance di gelatina,
tre anni di disobbedienza,
ma splendida sconosciuta.
E dovevo imparare
perché volevo morire invece che amare,
perché mi faceva male la tua innocenza,
e perché accumulo le colpe
come un giovane internista
rivela i sintomi e la certa evidenza.
Quel giorno d’ottobre che andammo a Gloucester
le colline rosse mi ricordavano
la pelliccia di volpe rossa sdrucita
in cui giocavo da bambina,
immobile come un orso, una tenda,
una gran caverna che ride, pelliccia di volpe rossa.
Oltrepassammo il vivaio dei pesci,
il baracchino dove vendono l’esca,
Pigeon Cove, lo Yacht Club,
Squall Hill, verso la casa in attesa
ancora, la casa sul mare.
E due ritratti sono appesi su opposte pareti.

6.
Al lato nord il mio sorriso al suo posto è fissato,
risalta nell’ombra il mio viso ossuto.
Mentre posavo lì cosa avevo sognato
tutta me negli occhi in attesa,
il giovane viso, la zona del sorriso,
trappola per volpi.
Al lato sud il suo sorriso al suo posto è fissato,
le guance vizze come orchidee appassite;
mio specchio beffardo, mio amore spodestato,
mia immagine prima. Mi occhieggia dal ritratto
quella testa di morte impietrita
che avevo sopraffatto.
L’artista ci fissò alla svolta;
si sorrideva inquadrate nelle tele
prima di scegliere strade da prima separate.
La pelliccia di volpe rossa doveva esser bruciata.
Mi decompongo sulla parete
come Dorian Grey.
E questa fu caverna di uno specchio,
una donna sdoppiata che si fissa
come se il tempo l’avesse impietrita
- due signore in terra d’ombra assise -
Hai dato un bacio alla nonna,
e lei ha pianto.

7.
Non potevo tenerti
tranne il weekend. Ogni volta venivi
stringendo il disegnino del coniglio
che ti avevo spedito. Per l’ultima volta
disfo i tuoi bagagli. Ci tocchiamo senza un contatto.
La prima volta hai chiesto il mio nome.
Ora rimani per sempre. Dimenticherò
che sbalzavamo cozzandoci come marionette
appese a fili. Non era l’amore
ridursi al weekend.
Ti sbucci le ginocchia, impari il mio nome,
traballando sul marciapiede piangi e chiami.
Mi chiami mamma e ricordo ancora mia madre,
che altrove, nei dintorni di Boston, muore.
Ricordo che ti chiamammo Gioia
per poterti chiamare gioia.
Arrivasti come un ospite imbarazzato
allora, tutta fasciata umida meraviglia
alla mia mammella pesante.
Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio,
solo una femmina, un topino lattoso di bimba,
da sempre amata, da sempre esuberante
nella casa di se stessa. Ti chiamammo Gioia.
Io, che non fui mai certa d’esser femmina,
avevo bisogno di un’altra vita,
di un’altra immagine per ricordarmi.
E fu questa la mia più grave colpa;
tu non potevi curarla o lenirla.
Ti ho fatta per trovarmi.

mercoledì 23 dicembre 2009

PRANZO DI NATALE

Mercoledì 9 dicembre

ore 13: 30
Arrivo in piazza del Campo. Lola, Teresa e Federica sono sedute vicino alla fontana e riscaldandosi sotto un sole pallido discutono dell’ incontro con la signora Muraro, avvenuto il venerdì precedente. A quanto pare l’incontro è molto ben riuscito e Lola e Federica ne parlano con entusiasmo. Aspettiamo Pina e Adelaide. Pina arriva verso le due, Raggiante come al solito.
Ci incamminiamo verso il ristorante “ Il Desiderio”. Io cammino avanti e cerco di concentrarmi sui dettagli di quel giorno. Vorrei conoscere le mie compagne al di fuori dell’aula F.

Siamo tutte molto eleganti, ciò vuol dire che rispettiamo l’occasione. Fede ha una mini gonna, Teresa veste una gonna grigia, Lola rispetta i colori del suo paese con una gonna di colori accesi e Pina è in pantaloni.

Ore 14:00
Arriviamo al ristorante e prendiamo posto. Il locale ricorda il vissuto senese, vale a dire “Medievale”. Immediatamente veniamo servite con un buon prosecco. Vai, il primo brindisi.
Abbiamo brindato augurando lunga vita al gruppo. Ecco, abbiamo pigiato il tasto dolente. Il Gruppo…
Da un po’ di tempo le poche componente sopravvissute si interrogano sullo stato di salute del gruppo.
I pareri sono contrastanti, chi pensa che va bene cosi come stiamo perché è un gruppo libero e ognuno ha diritto di comportarsi come crede, chi invece vorrebbe ridimensionare o ridefinire il concetto di gruppo…nel frattempo arriva Adelaide FELICE… con i capelli corti, le stanno proprio bene.

Ordiniamo il pranzo.
Dopo l’antipasto S.Desiderio io e Pina prendiamo tagliatelle alla zucca gialla, Lola e Fede pappardelle al cinghiale, Teresa risotto di mare e Ade – Oh Dio… i pici…? Non mi ricordo – Ade perdonami. Ovviamente accompagnati con un buon vino della casa.

Cominciamo a mangiare ma non smettiamo di discutere e tutto verte sulla “fondazione del gruppo” come dice Pina. I pareri sono molto colorati come i nostri i piatti. E poi non so come esce all’improvviso il nome del nostro gruppo con una variante: “ presenti, assenti” chiamato cosi da qualcuno ! Forse per le continue latitanze delle componenti?
Facciamo un altro brindisi questa volta per l’anno nuovo , con la speranza che il nostro gruppo rimanga compatto e unito.
Alla fine del pasto giungiamo ad una conclusione: crediamo in ciò che facciamo, indipendentemente dal concetto di gruppo, esprimiamo i nostri pareri in modo autonomo, che a dire il vero non è poco con i tempi che corrono. E’ un forum per manifestare la propria identità di donne che guardano alle battaglie delle madri nel passato ma che riescono allo stesso tempo a proiettare le nuove ideologie, adattandosi alle esigenze della donna di “oggi”.
E io ci metto anche il mio: è un’ occasione per me e Lola di sentirci parte integrante della società italiana che ci ha ospitato.

Dopo il caffè gentilmente ci cacciano, anche perché tra una chiacchiera, un boccone e un brindisi si sono fatte le 16:15

Usciamo, fa freddo fuori, le signore accendono una sigaretta e si rilassano, è ancora presto. Cosa facciamo? Federica suggerisce un ammazza caffè da Nannini. Prendiamo la strada per raggiungere il bar. Per arrivare a Nannini ci mettiamo mezz’ora abbondante. Alla Croce del Travaglio ci fermiamo e parliamo dei problemi femminili che affliggono alcune nostre amiche. “E se questa non è una donna!”, mi viene questo titolo in mente, mentre osservo le mie compagne; fresche, vivaci, che vogliono una nuova dimensione di vita per loro e per le loro figlie … e magari un giorno potranno dirle “ C’eravamo anche noi.”.
Finalmente entriamo al bar, non ricordo bene se facciamo un altro brindisi o meno e cominciamo a discutere di un altro argomento a mio parere importante: il nostro gruppo può essere influenzabile dall’interno o dall’esterno ? E se si come dobbiamo comportarci?
La risposta a queste domande rimangono avvolte in un velo di perplessità. Ci vorrà tempo per trovare una strategia adeguata nel caso in cui ciò succeda.
Come diceva una volta Michela “ Bisogna avere pazienza.” E noi ne avremo, basta non perdere di vista il nostro vero obiettivo: trovare un giusto spazio all’interno di una società che ancora guarda alla donna come “l’altro!”

Ore 18:00
Usciamo dal bar. Fa ancora più freddo. Vedo gli occhi lucidi di Lola, la cerchiamo e la salutiamo con affetto.
A distanza di poco tempo Lola è partita per la Spagna, Pina per Monza. Federica per Londra e Teresa forse per la Calabria e Adelaide, invece, mercoledì scorso ha raggiunto una meta importante, si è laureata. AUGURONI.

Carissime signore “Presenti, differenti”, questo è il report di una giornata indimenticabile, una giornata che ho condiviso con le mie compagne, non solo le loro idee ma il meraviglioso nostro mondo di DONNE.

Buon Natale e Felice Anno Nuovo dalle signore dell’aula F. Non perdete il video su
http://www.youtube.com/watch?v=O2MFducncsg&feature=related

mercoledì 2 dicembre 2009

Oggetto di Mari

Ho un po’ riflettuto se scrivere a caldo dell’oggetto presentato da Mariagrazia. Mi sono detta di sì, e così sono a scrivere appena uscita dall’incontro densissimo di oggi.
Desidero ringraziare ancora Mari dell’averci scelto per condividere un oggetto che, a distanza di due anni dalla morte di sua madre, è ancora, e forse lo sarà, caldo di dolore per lei, ma anche di amore infinito. E’ questo amore che forse le ha permesso di esprimersi con quella sobrietà che non si è mai riempita di sentimentalismo, che ha permesso alla sua parola di colorarsi di vita, di umanità.
Mari ha presentato una poesia di Pier Paolo Pasolini, la “Ballata delle madri”; non abbiamo letto immediatamente il testo, per cui lo inserirò quando Mari ha deciso di farlo leggere, dopo averne fatto una sorta di introduzione.
Il testo riguarda il rapporto che P. aveva con la propria madre, ma in generale il ‘modo’ di essere madre.
E’ una poesia dura, dai toni aspri, e lo è in particolare perché tocca una relazione, quella tra madre-figlia/o, che è la più viscerale.
Il suo testo ha più piani di lettura, a seconda del coinvolgimento emozionale che si prova nel leggerla, più o meno compromesso dal proprio vissuto.
Racconta tutta la contraddizione che c’è nel rapporto madre-figlia: è una poesia d’accusa, ma che parte e dà per scontato l’amore del figlio per la madre, per cui Pasolini può essere così aspro.
“Ho perso mia madre due anni fa”: in questo dolore è fondamentale per Mari “recuperare tutto”.La sua è la volontà caparbia di assomigliarle –per tenerla in vita- insieme a quella di trovare se’ stessa a prescindere da lei.
“Niente come mia madre è autrice del mio essere donna”: per questo Mari ne ha fatto l’oggetto del glossario, e la sua storia è un po’ riassunta da questa poesia.
Pasolini accusa le madri di essere vili –con toni da scelta quasi espressionista-: sotto tutta questa durezza di toni emerge una condanna culturale e sociale, che è quella di ritenere le madri responsabili di perpetuare la cultura dominante, nel senso che la trasmettono ai figli per il timore tutto materno di proteggerli, e quindi per plasmarli già atti a vivere nel ‘sistema’.
Per elaborare il suo dolore, Mari ha bisogno di oggettivarlo, per questo necessità il suo sguardo ha cercato nel ‘poesia della madre’del ‘900: per trovare le parole.
Il punto di partenza è in un’altra poesia di Pasolini, “Supplica a mia madre” [che ho inserito alla fine del testo].
Mari ne cita i versi: “sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione”. Dopo la morte della propria madre, con cui chiunque ha un rapporto morboso, l’impressione è proprio quella di sopravvivere in una confusione al di là della ragione. L’impressione è quella di rinascere. Ti ritrovi al mondo nuova: non sei più la sua proiezione. E’ il mistero, l’ineffabile. E’ come l’Annunciata di Antonello da Messina: è la maternità, non solo quella fisica e già realizzata, ma quella possibile. “La maternità, che io non ho vissuto, costituisce un grosso tratto della mia identità”. E per Mari un’altra parola per il glossario è “trasmissione”: il mestiere delle mamme è anche quello di preparare i figli al mondo, di dar loro i propri occhi.
Adelaide ora dà voce alla poesia:

Ballata delle madri
di Pier Paolo Pasolini
Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
– nel vostro odio – addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.

Quest’odio verso le madri, è un odio che Mari ha provato verso sua madre: le ha fatto rimostranze per il fatto che lei volesse i figli bravi, che per non avere problemi con la vita dovevano accettare un certo stato di cose. Mari si è sentita oggetto di trasmissione di un cristianesimo “per chi si accontenti dei resti della festa”, di un concetto frustrante di “umiltà” catto-borghese.
La cosa bellissima della poesia è che Pasolini condanna la cultura e in qualche modo salva le madri, le capisce; per questo Mari si sente rappresentata dalla poesia: intanto perché capisci tua madre come donna e poi perché comprendi la ragione per cui le madri ti educano in un certo modo.
L’universalità di questo testo poetico per Mari sta nel fatto che sicuramente sua madre avrebbe potuta riferirla alla propria madre.
I racconti su sua madre delle amiche, le restituiscono un’immagine di lei molto anarchica, e Mari sente che da lei ha preso la sua anarchia. C’è qualcosa di insito nella maternità: la paura che le proprie creature possano essere felici, per quello che essere felici comporta. Anche donne libere, nella trasmissione della propria libertà, stanno attente a che i loro figli non ne siano feriti.
Pasolini pur urlando, difende la madre: così è nella prima strofa, che è opposta a tutte le altre: è come se parlasse di come, al di là di quello che esse insegnano, le (madri)donne fossero all’opposto.
Per Mari è l’”enorme contraddizione tra enorme amore/ enorme recriminazione”. Quando muore una madre vuoi capirla, e ti trovi davanti ad uno scoglio insormontabile: la madre è donna ( e compagna, e moglie…) e poi è madre. Per questo si attua una scissione tra l’essere donna completa e la preoccupazione per il desiderio di avere figlie libere, ma che poi soffriranno per questa loro libertà, perché la società le condannerà e le farà soffrire.
Una delle colpe di infelicità che si attribuisce alle madri è quella di non aver avuto relazioni, o di averle interrotte “per la felicità dei figli”: le madri spesso diventano portatrici di ‘maternità’ più che di ‘identità di donne’, assecondando in questo e fecondandola, l’identità maschilista.
A questo punto mi viene in mente la pagina bellissima della lettera al figlio di Sibilla Aleramo di “Una donna”, che magari farà, chissà? Parte del mio oggetto (ricordatemelo!!!).
In questo sta la viltà che spesso Mari ha rimproverato a sua madre: nelle forti violenze psicologiche che lei subiva (quel “chinare senza amore la testa”?). Sente di avere avuto con la madre un approccio forse troppo severo, pensando, contrariamente a quanto ritenesse la sorella, che quelle della madre non fossero state scelte ma condizionamenti.
Quel “Sopravvivete! Pensate a voi!” della penultima strofa, la madre glie lo ha detto un sacco di volte, ma poi in realtà lei non lo applicava a se’ stessa: la donna fa prevalere la paura per il figlio e blocca la parte di se’ più libera, fa emergere una parte di se’ atavica, quella protettiva.
“E’così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli … dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di essere uomini”: è da questo dolore dell’ultimo verso che le madri vogliono tenere lontani i propri figli.
Mandana, che era l’unica madre presente –le altre eravamo Lola, Adelaide, Mari ed io- nel ricordare come fosse vissuta in simbiosi con sua madre, che era molto giovane quando l’ha avuta, riflette sul fatto che all’atto della maternità il corpo produce un ormone particolare che dà quell’istinto di protezione verso il figlio.
“Quanto c’è di lei in me, quanto del suo carattere non voglio” Mari dice. “voglio solo aprire uno sguardo sull’abisso. Su mia madre”.

Chiudo qui il report. Riporto l’altra poesia di Pasolini ricordata da Mari, che tra l’altro in un passo famoso del film “I cento passi” Beppe Impastato legge a sua madre dopo esser stato rinnegato dal padre.
Beppe Impastato. Pier Paolo Pasolini. Entrambi morti uccisi…


Supplica a mia madre
di Pier Paolo Pasolini


E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.

Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…